Classificare il bello

Classificando musica e artisti spesso si incontrano momenti di confusione, in chi legge e in chi fa critica musicale. Classificare dei fenomeni, degli oggetti, degli artisti, degli eventi di per sè non ha niente a che fare né col bello né col giusto.

Da un punto di vista astratto, dell’analisi, separare in classi significa accomunare oggetti considerati omogenei secondo uno o più criteri di omogeneità, criteri scelti dall’analista perché considerati rilevanti per qualche motivo personale o sociale, per distinguerli da un’altra classe di oggetti.

Se dico che la musica improvvisata senza swing non è jazz, non sto dicendo che solo lo swing è bello ma sto adottando un criterio personale per analizzare la storia della musica improvvisata di derivazione jazzistica, per capirci di più in cento anni di musica mondiale.

C’è da aggiungere che se faccio questa distinzione, in realtà, cerco anche di separare quello che mi piace di più da quello che mi piace di meno o non mi piace. Il musicista, il ricercatore, il critico, l’ascoltatore hanno i loro valori, i loro gusti e questi giustamente orientano le loro analisi e le loro politiche di condivisione. 

Classificare serve dunque a fare ordine, a semplificare, a rendere intellegibile a se stessi e agli altri un complesso sistema di fenomeni come quelli musicali, serve a capire e a comunicare. 

Penso che sia utile dunque fare delle classificazioni tra generi, sottogeneri, tra singoli dischi e artisti, cercando di non affezionarsi troppo ai propri criteri, soprattutto quando si parla con gli altri per confrontarsi. Inoltre, una classificazione che è utile in un’occasione o un periodo può diventare inutile in un altro.

Credo che il jazz contemporaneo sia ancora un fenomeno artistico di grande rilievo per tantissime persone e che veicoli una cultura dell’arte e della vita di grande importanza: la parità, l’improvvisazione, la libertà espressiva, l’invenzione sincronizzata, l’ascolto reciproco, lo spettacolo, il dialogo, l’uguaglianza, la bellezza, la sensualità.

Allo stesso tempo penso che una parte del jazz attuale, che spesso è senza swing o relazione con lo swing, sia diventato troppo riflessivo, poco istintivo, troppo nostalgico, troppo noioso. Ma ci sono, in quest’ambito della contemporaneità musicale, musicisti e musiche di grande bellezza, così come tanta musica piena di ritmo e swing è assolutamente noiosa, dal mio punto di vista.

Capire le principali tendenze del jazz contemporaneo è un fatto sia psicologico sia di mercato. A molti jazzisti europei è piaciuto, è risultato interessante suonare musica non ballabile, lenta o placida, quasi a lenire una propria sofferenza, una propria nostalgia, oltre a quella del pubblico.

Ma questo risultato è anche una scelta editoriale, di mercato di alcune grandi case discografiche come la ECM tedesca che negli ultimi decenni ha lasciato lo swing a pochi grandi artisti come Keith Jarrett o come la italiana EGEA Records. 

Non tutta la musica prodotta dagli anni 80 in poi ha avuto questo indirizzo. Per esempio la Red Records italiana o la Steeplechase Records danese hanno percorso tutt’altre strade in questi ultimi decenni, registrando un jazz di altro tipo, non necessariamente sempre più bello o più brutto.

Per concludere questi brevi appunti, vorrei dire che una cosa interessante e utile può essere classificare il bello, quello che ci piace, piuttosto che il brutto o quello che non ci pice. 

Ricordiamoci che stiamo parlando di arte, di musica e che questo dovrebbe essere il luogo della libera espressione per eccellenza, perché è abbastanza difficile fare danni con l’arte, soprattutto in un contesto di grande pluralità come il web.

Classificare il bello, quello che ci piace, è un invito agli altri ad ascoltare, a vedere, in un ambito in cui per converso la dissuasione non ha nessun motivo di essere. 

Classificando il bello possiamo capire di più ciò che ci piace e raccontarlo agli altri, possiamo imparare a riprodurlo e a condividere il nostro piacere. 

Mentre classificare il brutto o quello che non ci piace in musica può diventare facilmente un moralismo bacchettone, una presunzione morale: questo artista dovrebbe piuttosto fare così, dovrebbe migliorare questo aspetto, la sua musica è carente di ritmo, di melodia, è tecnicamente discutibile, le sue composizioni non hanno niente di originale.

Classificare il brutto può essere inutilmente spiacevole, in campo aperto, ma ha sicuramente una valenza personale importante, per capire perché non sopportiamo alcune manifestazioni artistiche e può servire anche a comprenderle meglio, una volta analizzate e classificate.

Dare i voti, inoltre, cosa un po’ diversa da classificare, perché significa dare anche un ranking alle classi fatte, può essere fatto con ironia e intelligenza, come gioco. L’importante secondo me è non sentirsi inutilmente i ministri del bello e del brutto in campo artistico, perché ciò che conta è godere dell’arte e della musica e questo a volte può passare anche per una buona analisi.

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